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Via S. Pietro Martire 18,
Reggio Emilia, Italia

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Eugenio Capitani 


L’ARTE DELLA MEMORIA
Una lettura morale dell’opera artistica di Giordano Montorsi


ArtPoint 18, via S. Pietro Martire, Reggio Emilia
aprile 2015

 
 

Nei pressi di Cavriago, un piccolo centro urbano situato nella provincia (se così ancora si può chiamare) di Reggio Emilia, esiste un ottimo ristorante, una sorta di trattoria dove la specialità della casa è da individuare senza alcun dubbio nella cucina del pesce, provare per credere. La “Casa dei Bardi”, così chiamata quasi a simboleggiare un omaggio ad un qualche tipo di letteratura romanza, è un’osteria accogliente e affollata, nella quale, senza alcuna ombra di dubbio, ci si può godere una serata in sana compagnia sorseggiando, magari, un buon bicchiere di eccellente Lambrusco. Il chiasso e il sovrapporsi di voci che circonda l’intero locale sono senz’altro buoni ingredienti per combattere qualsiasi eventuale sentimento di malinconica solitudine; tuttavia, la domanda che ci poniamo in questa sede è se, in un ambiente simile, si possa anche solo pensare di intraprendere una discussione che abbia l’ardire di elevarsi al di sopra della banale chiacchiera. Eppure, è proprio in questo contesto che il buon Giordano è riuscito a mettermi a dura prova, riguardo ad una controversia particolare che attraversa il panorama della critica d’arte già da diversi decenni, se vogliamo essere il meno iperbolici possibile. Dunque, potremmo tranquillamente rispondere alla domanda che ci siamo posti in senso totalmente affermativo, dal momento che quella discussione trascorse imperturbata fino al termine della deliziosa cena, e forse anche oltre, come il tema sicuramente richiederebbe in un’occasione leggermente più accademica. Ciò che, probabilmente, è riuscito a indurci a considerare i bisogni fisici come un aspetto secondario, va ricercato nel secondo e specifico quesito che qui siamo costretti a sottoporci: l’arte è un fatto morale? O meglio, l’arte può divenire ed essere concepita come Morale? Il termine, indubbiamente, non è tra quelli più semplici e adatti ad una serata frivola, ma this is the matter, di amletiana memoria: morale o non morale? Se vogliamo anche soltanto sperare di poter rispondere ad una simile domanda, ci occorre in primo luogo affrontare un paio di considerazioni che non possono in alcun modo essere trascurate.

Per prima cosa, dunque, risulta opportuno soffermarsi sul concetto e sulla definizione di arte in sé, in modo tale da individuare in maniera accurata quelle che possono essere le proprietà, o meglio, gli attributi di questa sostanza che per necessità siamo costretti a chiamare arte, e in nessun altro modo. Possiamo chiedere, tanto per introdurci nella discussione, il supporto del celebre studioso e critico E. H. Gombrich, il quale nella sua personale Storia dell’arte ci rivolge un prezioso ed interessante avvertimento:

Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti: uomini che un tempo con terra colorata tracciavano alla meglio le forme del bisonte sulla parete di una caverna e oggi comprano i colori e disegnano gli affissi pubblicitari per le stazioni della metropolitana, e nel corso dei secoli fecero parecchie altre cose. Non c’è alcun male a definire arte tutte codeste attività, purché si tenga presente che questa parola può significare cose assai diverse a seconda del tempo e del luogo, e ci si renda conto che non esiste l’Arte con l’A maiuscola, quell’Arte con l’A maiuscola che è oggi diventata una specie di spauracchio o feticcio. Si può rovinare un artista sostenendo che la sua opera è ottima a modo suo, ma non è Arte, e si può confondere chiunque abbia trovato bello un quadro dicendogli che non si trattava di Arte ma di qualcos’altro.

Diviene preferibile, in quest’ottica, considerare maggiormente l’operato degli artisti, piuttosto che chiudersi in dogmatici tentativi di definizione di una pratica umana che poco si presta ad un incasellamento così specifico e disciplinare. Giacché, esiste qualcosa di ben determinato che è in grado di accomunare quegli uomini preistorici delle caverne di cui parlava Gombrich e gli artisti come siamo abituati a conoscerli: che si tratti di una parete rocciosa, di una tela o di una qualsivoglia scultura, non potrà mai venire meno la volontà dell’autore di lasciare un’impronta. La volontà di agire e pertanto di stupire. La volontà, intesa come un’emergenza irrefrenabile di intenzione, l’intenzione di esprimere, l’intenzione di comunicare e di essere ascoltati per ciò su cui si riflette e su ciò di cui ci si meraviglia. La vera essenza dell’arte, la sostanza, il primo motore immobile di tutto quanto il nostro universo estetico, non possiamo ricercarlo tanto nella speculazione e nella selezione riguardo ciò che ci sembra più meritevole di essere definito nel nome dell’arte, bensì faremo meglio a calarci nella realtà dell’autore, del progenitore di un’intenzione, di un pensiero, prima di tutto. Tuttavia, questo punto di vista non sembra essere l’obiettivo dichiarato di molti pensatori che hanno dedicato parte del loro tempo alla riflessione sull’arte e sulle sue specifiche manifestazioni, tentando, loro malgrado, di esaurire i dubbi e le incongruenze di un tema che spesso ha messo con le spalle al muro diverse metodologie di analisi.

Nel suo Breviario di estetica del 1912, il celebre filosofo italiano Benedetto Croce esordisce con una di quelle questioni che sarebbe preferibile affrontare dopo anni e anni di studio matto e disperatissimo: che cos’è l’arte? La sua prima esigenza, dunque, è quella di dare una definizione non tanto al concetto, non tanto all’idea, quanto all’effettiva applicazione di tutto ciò che possiamo far ricadere nell’ambito dell’arte stessa. Bisogna ottenere una chiara ed inequivocabile delucidazione su questa attività umana, a tal punto che ci si deve sforzare di eliminare tutte le incomprensioni e le problematiche che un tale tema si trascina avanti da troppo tempo. Un obiettivo non di poco conto, se non fosse che alle premesse soggiace un desiderio eccessivamente speculativo e fin troppo filo-metafisico per avere anche solo la speranza di arrivare al tanto sospirato traguardo. Croce, infatti, preferisce seguire un metodo di ricerca alquanto dispendioso e impegnativo, procedendo non tanto in maniera lineare ma per viam negationis, eliminando cioè pian piano tutti quegli elementi che a suo parere nulla hanno a che vedere con il concetto di arte in sé e per sé:


• L’arte non è un fatto fisico. Non può essere definita dai vari suoni o colori e dalle loro determinate interazioni.
• L’arte non è un fatto utilitaristico. Non fa riferimento, cioè, alla volontà di conseguire uno scopo pratico: non persegue interessi personali e individuali.
• L’arte non è un fatto morale. Questo punto ci interessa da vicino, dal momento che, per Croce, «poiché l’arte in quanto atto teorico non nasce per opera di volontà, non può essere altresì giudicata con criteri morali». Se non si può giudicare l’arte in base a dei principi morali, essa non può essere legata a nessun tipo di scopo o funzionalità, come ci ricorda lui stesso:

Un’immagine artistica ritrarrà un atto moralmente lodevole o riprovevole; ma l’immagine stessa, in quanto immagine, non è né lodevole né riprovevole moralmente. Non solo non v’ha codice penale che possa condannare alla prigione o alla morte un’immagine, ma nessun giudizio morale, dato da persona ragionevole, può farla suo oggetto: altrettanto varrebbe giudicare immorale la Francesca di Dante o morale la Cordelia di Schakespeare, quanto giudicare morale il quadrato o immorale il triangolo.

• L’arte non è un fatto logico. Vale a dire che, l’arte, in quanto tale, non può in alcun modo avere carattere gnoseologico, né tantomeno concettuale.

Ci troviamo di fronte, allora, ad un vero e proprio Sistema chiuso. Da fedele neohegeliano sistematico, Croce inserisce l’arte in una sorta di circolo assoluto dello Spirito, confinandola nella regione che egli attribuisce all’attività teoretica del pensiero e, più precisamente, nel grado più alto del primo momento, vale a dire quello dell’intuizione. L’arte non sarebbe altro che l’intuizione-espressione lirica del sentimento, cioè il livello perfetto della conoscenza individuale in termini aprioristici. Dal momento che si trova inserita nei quattro momenti della filosofia dello Spirito, l’arte, o meglio, l’Estetica, non possiede alcuna opportunità di sconfinamento dal proprio ambito essenziale. Essa rappresenta una tappa, una specifica e momentanea transizione all’interno del cammino dello Spirito, il quale si ripete infinitamente e in maniera perfetta ed ineluttabile. Ciò che ci interessa maggiormente di tutta questa analisi risiede nel mostrare come, per Croce, la questione principale vada rilevata nell’esigenza di fornire una definizione di arte in senso stretto, senza minimamente considerare l’operato dell’artista e la funzione dell’opera d’arte come oggetto di eventuale riflessione e interpretazione. Seguendo le sue parole, l’arte non può essere un fatto morale, non bisogna ricercare nessun intento morale nell’immagine, nessuna funzione di tipo pratico al suo interno. Eppure, è proprio nell’intenzione e nella volontà dell’autore che possiamo ritrovare una radice artistica che il filosofo italiano ha preferito lasciare come aspetto secondario. Cosa possiamo dire, infatti, riguardo l’oggetto estetico e l’intenzione del suo ideatore? Un oggetto che suscita un effetto estetico su chi lo osserva può essere definito artistico in ogni caso?

Se consideriamo l’intenzione come elemento fondamentale di qualsiasi attività umana, dobbiamo anche necessariamente ritornare ad una concezione di volontarietà che numerosi studiosi, come lo stesso Croce, hanno cercato di escludere dall’aspetto estetico a livello prettamente concettuale. Tuttavia, logicamente, se supponiamo che qualsiasi progetto umano si sviluppi grazie ad una volontaria intenzionalità, dobbiamo anche ravvisare una simile funzione nell’opera d’arte come oggetto risultante da un determinato tipo di concezione e volontà, dal momento che non possiamo negare il fatto che qualsiasi prodotto estetico sia stato generato da un determinato autore. Questa specifica considerazione viene affrontata anche da Michael Baxandall nel suo testo Forme dell’intenzione; egli, infatti, preferisce concentrarsi sull’incarico dell’artista e sulle conseguenze particolari nei confronti dello spettatore dettate dal suo agire:

Non esistono dubbi sul fatto che possiamo chiamarla «intenzionalità» secondo il modo husserliano neokantiano. Assumiamo un proposito, o un intento, o, per così dire, un’intentività, non solo nell’agente storico (il pittore, il poeta, ecc.) ma soprattutto nell’oggetto storico in sé. Assumiamo quindi che l’intenzionalità è una caratteristica di entrambi; l’intenzione è l’aspetto tendente-a-qualcosa delle cose. [...] In questa relazione rintraccio cause volontarie dell’attore che possono essere derivate dalle sue istituzioni di riferimento; altre potrebbero essere disposizioni acquisite dall’attore in momenti precedenti e non essere state in questo caso generate da una specifica riflessione.

Dunque, l’intenzione non risulta essere qualcosa che interviene a livello solamente procedurale, ma riesce ad estendere il suo campo di influenza anche a quella che può essere la reazione del ricevente dell’opera d’arte stessa, vale a dire lo spettatore in carne ed ossa. Si instaura in questo modo una relazione di tipo estetico di cui i fruitori sono, da una parte, l’autore e il suo prodotto specifico e, dall’altra, il soggetto che si trova ad osservare tale prodotto finito nella sua realizzazione. Ne consegue che, l’intenzione, rappresenta la sostanza effettiva dell’opera d’arte in quanto oggetto derivato da una precisa attività umana alla cui base si trova l’artista con il suo background di riferimento, idee, preferenze, esperienze e, non meno importante, sentimenti morali. Se la funzione di un prodotto artistico viene generata da uno specifico interesse morale, allora, anche tale risultato avrà certamente un carattere morale, nel senso che avrà il compito di suscitare una determinata reazione nell’osservatore oltre che ad un determinato flusso di riflessioni. Tuttavia, ci siamo dimenticati di un aspetto importante che concorre a delineare il discorso che abbiamo tentato di impostare: che differenza c’è, se davvero possiamo rilevarla, tra la relazione estetica e la relazione artistica? Sono la stessa cosa, oppure dobbiamo fare attenzione alle dovute caratteristiche di entrambe?

Lo studioso di nazionalità francese Gérard Genette tenta di affrontare questo specifico tema nel suo testo intitolato La relazione estetica, dove imposta un’argomentazione analitica e linguistica proprio sulle differenze e sulle definizioni che siamo costretti ad analizzare se ci troviamo di fronte ad un problema simile. In primo luogo, risulta fondamentale distinguere la relazione estetica da quella artistica, giacché, per Genette, è proprio la questione relativa all’intenzione che permette di separare gli ambiti della mera aspettualità di un oggetto dalla funzione determinante di un’opera d’arte. Per generare un effetto che voglia dirsi estetico, un oggetto deve, prima di tutto, essere osservato da qualcuno che possieda o che sia interessato a possedere un’attenzione aspettuale (estetica), la quale è in grado di generare in un simile osservatore un giudizio di un certo tipo; in questo modo, l’oggetto osservato verrà valutato non in base allo scopo per il quale è stato prodotto, bensì per le sue caratteristiche formali e, appunto, aspettuali (peso, colore, forma geometrica, ecc.). Tuttavia, tutto ciò non è sufficiente affinché si generi una vera e propria relazione estetica tra le due parti: se, infatti, dall’attenzione aspettuale si realizza un apprezzamento, vale a dire un giudizio estetico, potremo considerare l’interazione avvenuta su un piano estetico. Dobbiamo concentrarci sul problema dell’apprezzamento prima di addentrarci in un qualsiasi tipo di analisi dettagliata, poiché un oggetto può definirsi estetico solo se risulta protagonista di un’attenzione e un apprezzamento estetici. Vale a dire che, «l’aggettivo estetico dunque non è qui “disposizionale”, ma al contrario risultativo: non è l’oggetto che rende estetica la relazione, ma la relazione che rende estetico l’oggetto. L’oggetto che considero (o a cui penso) attualmente da un punto di vista estetico è attualmente e in questo senso un oggetto estetico».

Parafrasando Kant e le sue parole espresse nella Critica del giudizio, Genette identifica nell’aspettualità finalizzata all’apprezzamento di un oggetto ciò che il filosofo di Konisberg aveva chiamato con il termine Beschaffenheit; essa non è altro che l’espressione cogente di quello che possiamo considerare il giudizio estetico vero e proprio, orientato verso le proprietà e l’esistenza dell’oggetto in questione, ma del tutto disinteressato e alieno da qualsivoglia considerazione gnoseologica o morale. Del resto, nell’Analitica del Bello la prima caratteristica o momento del giudizio estetico viene rilevata da Kant proprio nel suo carattere disinteressato: vale a dire che, la qualità di tale giudizio si riferisce esclusivamente alla sua capacità di concentrarsi sull’oggetto senza chiamare in causa elementi di tipo pratico o conoscitivo. Dunque, secondo questo ragionamento sia l’oggetto estetico che l’attenzione rivolta ad esso non possono essere definiti come fattori morali. Infatti, «dove parla la legge morale, là non c’è più, oggettivamente, alcuna scelta libera riguardo a ciò che si deve fare; e mostrare gusto nel modo di comportarsi (o nel giudicare quello altrui) è qualcosa di completamente diverso dall’esprimere il proprio modo di pensare morale: ché questo contiene un comando e produce un bisogno, là dove invece il gusto morale gioca soltanto con gli oggetti del compiacimento, senza aderire a nessuno di essi». Tuttavia, ci troviamo ancora fermi nella regione relativa a quella che abbiamo analizzato come relazione estetica; in questo preciso ambito, abbiamo considerato solamente il valore estetico di un oggetto, il quale può essere tranquillamente esteso anche a prodotti di diversa natura e dai plurimi scopi. Come sottolinea lo stesso Genette, se mi fermassi per strada a contemplare l’aspetto e l’architettura del tribunale di Reggio Emilia, potrei certamente soffermarmi sugli aspetti estetici che tale palazzo mi suggerisce, sebbene lo scopo della sua costruzione sia tutt’altro che estetico. Qualsiasi, oggetto, allora, in potenza può divenire un oggetto estetico se la sua relazione con un determinato osservatore si trasferisce in un valore di gusto o di apprezzamento del tipo “mi piace”, “è bello” ecc., dal momento che non è l’oggetto che rende estetica la relazione ma essa stessa che fa concepire tale oggetto sotto una luce propriamente estetica. Ciò che manca, dunque, non risiede certo in una regola di gusto ben determinata, ma deve essere rilevata ancora una volta nell’intenzione dell’autore; un oggetto qualunque può certamente costituire parte di una relazione estetica, ma l’intenzione del suo autore non avrà certo lo stesso valore, poiché il suo intento era un altro, diverso da una reale ricerca di un simile effetto. Infatti, quando il soggetto di una relazione, che abbia torto o ragione, assume che un oggetto consista in un «prodotto umano e presta al suo produttore un’ “intenzione estetica”, ossia l’obiettivo di un effetto da ottenere o la “candidatura” a una ricezione estetica, l’oggetto viene recepito come un’opera d’arte, e la relazione si specifica come relazione, o funzione, artistica».

La relazione artistica descrive compiutamente lo statuto di un’opera d’arte non in senso assoluto, non con criteri del tutto immutabili e dogmatici, ma in quanto esprime la volontà e l’intenzione dell’autore di presentare un determinato prodotto come un’effettiva opera d’arte. L’arte stessa, allora, non risiede nella definizione ontologica e sistematica di una teorizzazione miope e particolaristica, ma va ricercata, piuttosto, nel reale operato dell’artista, dell’autore. Se l’intenzione di un particolare autore si manifesta come desiderio di raggiungere un effetto artistico che susciti riflessioni e pensieri morali negli spettatori, di conseguenza potremo affermare senza paura che l’arte è anche un fatto morale. La relazione artistica individuata da Genette ha la capacità di discostarsi sia dalla teorizzazione kantiana, sia da quella di stampo crociano; esse, infatti, possono venire considerate come espressioni di valori estetici particolari, ma non universali e certamente non relativi all’effettivo operato degli artisti e dell’intero mondo dell’arte. Eliminare del tutto i concetti o i pensieri dallo statuto di arte risulta essere un’operazione sconveniente e parziale, che non ci sentiamo di affrontare in questa sede; sarebbe come, ad esempio, non tenere conto per nulla della riflessione sull’arte di Arthur Schopenhauer e di molti altri. Per l’autore del Mondo come volontà e rappresentazione, ad esempio, le idee, le essenze prime della stessa realtà celata dal velo di Maya, albergano proprio nella sfera dedicata all’arte, l’arte stessa è capace di liberarle e di estenderle fino alla nostra contemplazione. E noi, d’altro canto, non ci sentiamo in grado di escludere i concetti, i pensieri, le sensazioni e le impressioni morali dall’ambito estetico, o meglio, dall’ambito artistico. Considerando, dunque, l’installazione 2015 di Giordano Montorsi, dobbiamo munirci in qualche modo di una metodologia corretta e che non abbia la pretesa di voler descrivere tutto ciò che le capita sotto lo sguardo. Ci dovremo, insomma, fornire di una linea guida, non certo di un sistema chiuso e assoluto come potrebbe essere quello crociano che abbiamo tentato di illustrare brevemente. Ci servirà, allora, qualcosa di meno dogmatico e particolareggiato; sarà preferibile adottare un punto di vista neutro e preciso allo stesso tempo che ci aiuti a comprendere meglio l’opera artistica che abbiamo deciso di prendere in esame. Un punto di vista che si può ben ravvisare in ciò che il celebre professor Luciano Anceschi di Bologna aveva posto all’inizio di tutta la sua ricerca: una prospettiva di tipo fenomenologico-critico, vale a dire «adottare un corretto metodo critico che consenta di evitare proprio i rischi dell’essenzialismo riduttivo, delle metafisiche più o meno mascherate, dei sistemi rigidi e astratti, in una parola di tutti i possibili dogmatismi». Ed è proprio ciò che tenta di operare la cosiddetta neo-fenomenologia critica, un modo del tutto alieno da qualsiasi pretesa di definizione scientifica o disciplinare; dunque, fenomenologia come rinuncia totale a qualsiasi ragionamento aprioristico e dogmatico, nuova in quanto diversa dal proposito husserliano, critica, in un senso prettamente kantiano, come ricerca dei limiti e degli ambiti specifici del sapere lontano da ogni metafisicità. In questo modo, potremo leggere in maniera più chiara e corretta, anche nei confronti del lavoro dell’artista stesso, il prodotto estetico e artistico che Montorsi ci propone.

Se partiamo dal titolo, ci appare già chiaro in che maniera dobbiamo conseguentemente muoverci. L’installazione è composta principalmente da due livelli, un olio su tela e una produzione di tecnica mista, ma tutto l’insieme viene circondato da un sola ed evocativa parola: memoria. Ecco qui l’intenzione, ecco qui il principio artistico e la volontarietà vera e propria: sembra quasi che l’autore ci chieda implicitamente di considerare questo lavoro come un omaggio al ricordo, un sussidio alla rimembranza, ma non una rimembranza qualsiasi, bensì una rimembranza morale, poiché invita a riflettere sul senso della celebrazione del settantesimo della Liberazione dal nazifascismo. Questa precisa opera d’arte, dunque, presenta un valore particolare, che l’autore sia nel titolo, sia nella disposizione organica, sottolinea con intensità e insistenza; la candidatura estetica del complesso presenta uno scopo del tutto morale, dal momento che non è sufficiente la retorica passiva e sterile del ricordo per rendere omaggio ad un evento fondamentale per la storia italiana, ma risulta necessario raffigurare il discorso ad un livello artistico di un certo tipo: la ricerca del potere evocativo dell’immagine attraverso l’orrore, la miseria e la disumanità, tutti aspetti che l’arte da secoli rappresenta in differenti maniere. Per questo motivo, allora, sembra evidente come Montorsi richieda allo spettatore di approcciarsi all’insieme artistico con una disposizione etica, uno stato d’animo che non può limitarsi alla semplice contemplazione; qui non si tratta di ritrovarsi tra amici e di discutere sul valore dell’apparenza di un quadro, di un’installazione o che dir si voglia: si tratta di disporsi con attenzione ad un momento preciso della storia dell’uomo, considerando gli aspetti più trucidi e sanguinari senza scandalizzarsi, ma ricercando dentro di sé quel coraggio di affrontare un simile ricordo per educare l’intera cittadinanza, l’intera umanità, giacché non si può escludere nessuno da questo ambito specifico. Questa, dunque, è l’arte delle memoria, l’arte intesa come missione etica ed educativa attraverso l’interpretazione e la rappresentazione di un groviglio di tematiche agganciate allo stesso elemento di riferimento: il tempo, il ricordo, la rimembranza ai posteri come speranza didascalica e morale, come speranza per il futuro. Nel quadro, sembra quasi che dei corpi avvolti in grandi teloni bianchi e accatastati l’uno vicino all’altro, come se fossero in attesa di essere gettati dentro delle fosse comuni, urlino il loro dolore e la loro testimonianza a chi li osserva, circondati da colori grigi e spenti, evanescenti e quasi scolorati. Potremmo dire di trovarci dentro la nostra stessa testa, dentro la nostra stessa memoria, appunto. Ma perché mai dei cadaveri dovrebbero essere coperti? Sta a noi, probabilmente, scoprirli attraverso la volontà di ricordare costantemente, anche se ci trovassimo anni luce lontano da questo piccolissimo nostro pianeta. Sta a noi nominarli uno ad uno, umanizzarli uno ad uno; per la memoria essi sono tutti uguali, quindi coperti e bianchi, proprio perché nessuno è più importante degli altri, proprio perché tutti hanno la stessa importanza e devono essere rischiarati da coloro che li stanno ad osservare, sotto il cielo nebuloso e vaneggiante della propria mente e del proprio mondo corrotto anche dalla semplice celebrazione. Occorre dischiudere i sepolcri e piazzare vicino a questo cimitero di viventi dei reali testimoni, le bacchette dell’installazione che accompagna il quadro; testimoni che, per il momento, sono ancora troppo pochi se ad essi non si aggiungono i giovani ragazzi delle future generazioni, i futuri uomini, le future donne e i futuri rappresentanti dell’umanità, la quale non è un gioco, non è una partita che può essere decisa da una squadra sola. Questo il messaggio che l’opera di Montorsi ci lancia, un messaggio chiaro e diretto, quasi brutale ma necessario nella sua realizzazione; esso, tuttavia, ha il carattere passionale e moraleggiante che dovrebbe possedere qualsiasi tentativo di racconto, qualsiasi rappresentazione di un passato ancora troppo vicino a noi per poter essere semplificato nella retorica vuota e sterile, per poter essere svilito attraverso semplici note di bande festose, quasi fosse la celebrazione di una ricorrenza religiosa. E se anche questo passato fosse ormai lontano e preda di una inconscia damnatio memoriae, il valore del ricordo, l’arte della memoria non perderebbe alcunché della propria essenza, del proprio dovere, della propria e pura valenza estetica ed artistica di fronte ai suoi spettatori.

Solo con uno sguardo attento, con un approccio rispettoso e volenteroso potremo veramente comprendere e apprezzare l’opera che abbiamo tentato di illustrare brevemente in queste pagine. Non dovremo, allora, metterci ad osservare con la presunzione di sapere ciò che andremo ad analizzare, dal momento che le sorprese possono sempre apparire anche nell’ora più tarda, anche quando la stanchezza opprima la mente e il raziocinio. Pertanto, cari amici, se preferite godervi la partita in santa pace perché credete già di sapere di che cosa si parli, fateci un favore: resistete fino al fischio finale e poi al massimo diteci come è andata a finire; forse, avremo ancora la pazienza per ascoltarvi. Del resto, come ci ricorda Gombrich nella sua Storia dell’arte,

Non si finisce mai di imparare, in arte. Ci sono sempre cose nuove da scoprire. Ogni volta che ci poniamo dinanzi ad esse, le grandi opere appaiono diverse. Sembrano inesauribili e imprevedibili come veri e propri essere umani. Formano un emozionante mondo a sé, con le sue strane leggi e con i suoi eventi. Nessuno deve presumerne di sapere tutto, perché nessuno lo potrà mai. Nulla, forse, è più importante di una mente fresca per godere queste opere, per poterne cogliere ogni allusione e avvertirne ogni nascosta armonia, una mente, soprattutto, non stipata di paroloni altisonanti e di frasi fatte. ? infinitamente non sapere nulla d’arte che avere quella pseudocultura che origina lo snobismo.

Bibliografia di lavoro
[1] M. Baxandall, Forme dell’intenzione: sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Torino: Einaudi, 2000.
[2] F. Bollino, Nuove lezioni di estetica, Bologna: CLUEB, 2011.
[3] B. Croce, Breviario di estetica, Bari: Laterza, 1936.
[4] G. Genette, La relazione estetica, Bologna: CLUEB, 2001.
[5] H. E. Gombrich, Dal mio tempo: città, maestri, incontri, Torino: Einaudi, 1999.
[6] H. E. Gombrich, La storia dell’arte, Torino: Einaudi, 1966.
[7] I. Kant, a cura di E. Garroni e Hohenneger, Critica della facoltà di giudizio, Torino: Einaudi, 1999.